La nascita contestata.
di Graz Pigna.
Nacqui in luglio, il 10, nel marasma delle tensioni sociali e familiari di quei giorni in rivolta.
Con il papà Giovanni che sognava un maschio con il membro ben visibile e un corpicino promettente per collaborare con lui, come lui aveva fatto con suo padre ai bei tempi, anche allora durante rivolte sociali.
Quand’ecco la canicola di Luglio, l’ora in cui anche nella clinica in cui era stata ricoverata sua moglie Peppina, si preparava il pranzo.
Fu lì che, allegra come un campanello, Grazia emise il primo gridolino fuori delle acque materne.
Fu lì che la vide il papà: tre chili e mezzo di tenera carne appena asciugata dai saponi, infarinata di talco e poi avvolta nell’asciugamano dalle mani di una ostetrica grassa.
Il dover chinare gli occhi riluttanti, e aprire la bocca sgomento, e sorridere verosimilmente gioioso a una minuscola copia di femmina fu prova per lui di un eroismo masochista.
E non lo consolava per niente vedere una faccia uguale alla sua, gli occhi grandi e marroni come i suoi, le guance paffutelle come le sue.
Il prendere fra le sue le manine grassocce della piccola e osservare le gambette serenamente abbandonate nelle mani della madre, beh, furono per il papà uno sforzo sovrumano. Davvero troppo, considerando quante parole avesse inutilmente sprecate in preghiera davanti al crocefisso di casa.
La mamma, al contrario, era visibilmente gratificata e dopo un’occhiata ammirata alla bambina dai capelli nerissimi che le avevano messo sul petto, li richiudeva beata ringraziando fra sé del grande miracolo ricevuto.
Era femmina, dunque la famiglia continuava indisturbata, seguendo ancora un antico e ormai ignoto asse ereditario. Quello che era stato volubilmente abbandonato dalla sua amata nonna per prendersi in sposo un gentile.
Tuttavia quello che accadde la sera stessa dell’arrivo di Grazia sulla faccia del globo, ebbe a portare fuori del suo limite umano la pazienza di mamma Peppina.
All’orario della poppa per la neonata un’infermiera, dalla folta criniera bionda intrecciata e mal chiusa in una cuffia candida, entrò nella stanza delle neomamme per permettere l’inizio del rito: il primo pasto di latte materno.
Ella, giocherellando con la sua mano destra con il contenuto dell’involto che teneva sul braccio sinistro, lo consegnò alla mamma con tenerezza sbrigativa, andandosene subito dopo presa da altre ambasce.
Al centro del bozzolo di cotone e di lino però, si fecero largo due braccine scarnite e di seguito a quelle, sgambettante e gorgheggiante, uscì una chioma di capelli riccioluti e rossi. Ricci? Rossi?
La mano di madre Peppina affondò tremando nell’involto, scoprì bene il volto del pupattolo, tirò giù i triangoli che lo fasciavano fra le gambette livide, e vide e toccò con mano l’inconcepibile obbrobrio: era di pelo riccio e rosso e anche maschio.
Era atterrita. Le mani le ricaddero lungo i bordi del letto, gli occhi levati al soffitto.
Urlò. Chiamò. Implorò verso la porta di dove era uscita l’infermiera, e allora il bambino prese anche a piagnucolare, e così attirarono l’attenzione delle altre mamme che erano nella stanza, e queste si fecero trascinare nell’ansia accaldata collettiva di un insolito caos, in una bollente sera di una domenica di Luglio.
Ognuna si rivolse alla signora Peppina con soffocante sollecitudine, chiedendole se avesse bisogno di qualcosa, perché mai urlava davanti al pupo, cosa succedeva…
La mamma Peppina aveva lasciato il minuscolo corpo di capelli e di sesso sbagliati, involto nei lini in mezzo alle sue gambe davanti a lei, e ora rimaneva fissa a osservare la demonica rivelazione in fiduciosa attesa di vedere tornare o l’infermiera o chiunque altro la potesse soccorrere.
In quella entrava suo marito, il neo-padre, trafelato, con la faccia scura e con un borsone di panni per la sua femmina raddoppiata. Senza guardarla, salutava sua moglie mentre riponeva la borsa nello scaffale allato del comodino; poi si voltò del tutto per sostenere il secondo incontro con sua figlia e invece restò ammutolito davanti alla scena del letto.
Vide la sagoma di sua moglie, pallida come un cencio lavato e con il dito puntato contro un pupastro rossiccio che scalciava davanti a lei e che ora aveva anche incominciato a piangere tutte le lacrime del cielo biblico.
Il padre fissava stralunato lei, il bambino e poi di nuovo lei, che però taceva faticosamente.
La mamma Peppina a un certo punto, voltò lentamente la faccia stravolta verso il marito e, con un certo sforzo, dichiarò fredda mantenendo il controllo di sé:
<Giovanni, questo coso rosso che urla non è il mio, non è la mia bambina. Io ho fatto una femmina, nera di capelli; portalo via di qui.>
Papà Giovanni invece, piuttosto incuriosito, si era avvicinato inchinandosi sul bambino e presolo delicatamente in braccio aveva incominciato a giocherellare con le sue manine e a infilare le dita nei riccioli rossi che gli ricadevano sulle guance… <già così capelluto?> Disse al pupo come se lo conoscesse da tanto. Il bambino zittì di colpo.
Mia madre aveva alzato lo sguardo sui due, che stavano ora appiccicati bocca-guancia, occhi-occhi. E urlò: <Giovanni!, io entro in convento. Portalo via, ho detto.>
E mio padre con gioia: <E’ maschio! Un maschio! Su, Peppina, coraggio, teniamolo con noi. Ce lo manda il Signore… Il soprannome della nostra famiglia non è Laròscia? E vuol dire appunto LA ROSSA! Perché il nostro pelo è anche un po’ rosso, biondastro, un po’ rossiccio insomma… Le mie preghiere hanno avuto risposta: ecco il maschio!>
Mia madre, con ostinata fierezza e voce cavernosa, di rimando:
<Questo qui – disse indicandolo ancora con il dito teso e una chiara repulsione - non è mia figlia! Mia figlia è nera e è femmina e io voglio mia figlia, quella che ho fatto io oggi a mezzogiorno e un quarto nella sala parto di questa clinica. Giovanni!, prendilo ed esci di qui! Vai dal medico e spiega che c’è stato un grosso sbaglio, questo bambino qualcuno lo ha perso e deve riaverlo indietro! Ma poveretti, pensa a quei due genitori disperati! Prendilo! Esci! Vai! Fai quello che devi fare! Torna con mia figlia, e giustizia sia fatta!>
Il papà Giovanni se ne stava immobile a guardare incredulo la mamma, costernato da tanta spietatezza femminile. <Eh, quante storie, un maschio è sempre un essere vivente, Peppina!>
E la neo-mamma rincarò:
<Sei proprio un animale, Giovanni; va’ dal medico e spiega che c’è stato uno sbaglio: c’è in giro per questa clinica un padre come te, e questo padre come te piange per avere perso suo figlio, un figlio maschio! E la madre? Povera donna… Pensaci Giovanni: un figlio è un arduo sforzo, però un maschio è proprio difficile da fare! E perché, e chi si prende la responsabilità di sottrarre a una donna la sua fatica, e di rubare a un padre un figlio maschio? Tu? >
A queste parole e al dito puntato contro di lui, il papà di Grazia restò di sale; nella sua testa ebbe a ruotare un neurone e nel suo cuore ebbe ad allungarsi un assone e infine, guardando il bambino ora pacificato e ammutolito fra le sue braccia, si risolse finalmente a mettere le carte al loro posto:
<No, certo, io non me la prenderei mai, certo che è uno sbaglio. E va bene, vado a parlare col Dirigente della clinica, vedremo se si troverà questa madre disperata, voglio vedere proprio…>
<Ma quale Dirigente, Giovanni; devi andare dall’infermiera che me lo ha portato, quella con la testa persa fra le trecce bionde, e devi rimetterglielo in braccio e poi le chiedi di riportarlo alla coppia che ha avuto nostra figlia e ti riprendi la bambina mia, è chiaro?>
Il papà, muto, si voltò di spalle e uscì a testa alta dalla stanza, col bambino fra le mani, disteso davanti a sé come un piatto di lasagne bollenti viene teso dal cameriere verso i commensali di una tavola imbandita.
Grazia P. (Diritti Riservati)
[bio-bibliografia dell’autore: www.plateaverde/academia.edu]
Prima pubblicazione in rete: https/FB: Generazione Maxi, a c. di Renato Gioja