PANDEMIA. La libertà é una fragile utopia di R. Gioja
Articolo relativo al Maggio 2020.
Il Gruppo Facebook “Generazione maxi” a luglio 2020 aveva condotto un’indagine tra gli iscritti su come ciascuno aveva affrontato il periodo di isolamento dovuto alla pandemia. I risultati erano stati variegati e tra questi era stata molto significativa l’elaborazione dei valori che le abitudini e gli impegni giornalieri avevano offuscato come, ad esempio, la vicinanza con talune persone con cui spesso si era in contatto ma con le quali mai avremmo pensato di entrare in buona conoscenza o amicizia. Vi era poi l’impiego del tempo attraverso attività hobbistiche, la musica, la lettura, l’uso del computer. Un fattore abbastanza comune era stato la revisione delle amicizie e la loro validità, la ricerca di giustificazioni su talune scelte di vita effettuate, il progetto di soluzioni per un possibile cambiamento. Su questi stati d’animo aveva molto influito la comunicazione pubblica le cui cronache e dibattiti erano stati impostati sull’invito a stare a casa ed accettare la chiusura come l’unica arma di difesa. Il progetto comunicativo era quindi caratterizzato da slogan tranquillizzanti nonostante i dati disarmanti che la Protezione Civile illustrava quotidianamente. Lo slogan prevalente era “Andrà tutto bene” nonostante ogni giorno vi fossero migliaia di nuovi contagi e centinaia di morti. L’Italia era preparata a tale situazione e forse questa era stata la prima volta che l’intera popolazione si era trovata unita nella solidarietà e nella comprensione verso coloro che erano stati colpiti direttamente dalla malattia. A pensarci oggi, sembra offensivo che per risvegliare lo spirito di unione nazionale siano state utilizzate canzoni o il battere dei coperchi sui balconi o stendere striscioni tranquillizzanti. Iniziative inopportune perché l’Italia si sentiva già unita e tante famiglie dedicavano ai morti un rispettoso silenzio. Anche il linguaggio aveva dato il proprio contributo avendo preferito i termini in inglese, meglio “lockdown” che il più comprensibile “isolamento”. Il termine in italiano avrebbe forse diminuita l’importanza di tanti esperti puntualmente presenti in TV. Anche a livello mondiale non erano mancate sceneggiate come toccarsi con il gomito per salutarsi quando sarebbe bastato un “buongiorno” o un gesto della mano. Addirittura ci insegnavano come starnutire nella manica per non dire che le mascherine non c’erano perché la Cina era l’unico produttore mondiale mentre mancava l’industria nazionale perché i costi di produzione non rendevano conveniente l’attività. Nel frattempo, i medici curavano i malati senza protezioni anche donando la loro vita ed erano “angeli”. Medici ed infermieri non erano angeli ma erano eroi, vittime di un dovere a cui non avevano voluto sottrarsi per un impegno preso verso la comunità. In questo scenario la cultura scientifica era incapace di dare risposte univoche e in televisione tanti personaggi finora sconosciuti ci riempivano di ipotesi e teorie spesso contraddittorie. Eppure la SARS non era una novità e qualcuno cominciava a chiedersi i motivi di quegli esperimenti genetici. Aveva già provocato epidemie locali (sempre in Cina!) ma forse il mondo scientifico occidentale non aveva considerato l’opportunità di approfondire gli studi né aveva pensato alla prevenzione. La verità unificante é che davvero abbiamo avuto paura e che ancora non si sa come finirà. In conclusione, partendo dall’analisi dei comportamenti individuali siamo arrivati alle vicende più generali che hanno avuto come elemento comune le regole imposte dall’emergenza ed il martellamento degli organi di informazione. Quasi che questa pandemia sia stata utile a verificare il comportamento delle masse, le risposte organizzative, l’impatto che potrebbe avere sull’economia. Forse ci ha insegnato che la difesa dei diritti individuali a volte è da mettere da parte e l’amara considerazione che emerge da tutto ciò è che la libertà è una fragile utopia.