La storia dei Monzù, i maestri della cucina napoletana, in una pubblicazione di Vittorio Accardi.
a cura di Luciano Dore
È alla fortunata conoscenza dell’amico Fabio Accardi che devo l’argomento di cui si parla nella presente nota: la storia degli abilissimi cuochi chiamati “monzù”, al servizio dei Borbone e delle famiglie aristocratiche napoletane. Rovistando nelle vecchie librerie del centro di Napoli o nelle bancarelle di Port’Alba potreste avere la fortuna di imbattervi in un libro scritto da Vittorio Accardi (padre dell’amico Fabio) dal titolo “I Monzù” Storie e ricordi di cuochi del tempo che fu (la prima edizione, ormai introvabile, risale al 1993 a cura di Edizioni Scientifiche Italiane; il testo è stato successivamente rieditato nel 2018 da Grimaldi & C Editori). Esso contiene interessanti informazioni, racconti, aneddoti che ruotano attorno a personaggi che non hanno spazio nei libri di storia, ma che hanno dato un valente contributo alla cucina napoletana, affondando nelle radici di una cultura vera del mangiar bene e probabilmente antesignani di quella filosofia del vivere “con” il cibo che oggi usiamo chiamare slow food. Ma è opportuno contestualizzare: innanzitutto il termine. Monzù era l’appellativo che spettava non a cuochi comuni, ma a grandi artisti tra i fornelli, versione napoletana del termine francese monsieur, originata e derivata dall’epoca borbonica; si trattava di un vero e proprio titolo onorifico.
Vittorio Accardi, che aveva vissuto da bambino nella sua famiglia quello che ancora restava di questo mondo particolare dei Monzù, racconta le storie di questi grandi cuochi, ospiti delle famiglie napoletane di grandi tradizioni, con dovizia di particolari, avendo raccolto presso amici e conoscenti (e soprattutto documentandosi con metodo scientifico, quanto ai periodi più lontani) informazioni e ricordi che solo qualche decennio dopo sarebbero andati inesorabilmente dimenticati. Da qui la curiosità e l’ammirazione verso personaggi pressoché sconosciuti ai più, che l’autore ha fatto rivivere, facendoli uscire dall’anonimato, sicché potremmo immaginarli come in un film ambientato nell’800 o nella Belle Epoque e negli anni Liberty; e, ancora, per quel poco che restava, nel periodo tra le due guerre, fino ai primi anni ’50.
Non è possibile qui rendere l’atmosfera che si respira dalla lettura del libro in mio possesso (gentile omaggio dell’amico Fabio), ma possiamo immaginare i primi cuochi francesi, portati dai Borbone, e ben presto “sostituiti” da locali artisti dei fornelli. Fu infatti inevitabile, già nell’800, una certa contaminazione a Napoli tra la cucina francese e quella napoletana: già nei primi decenni dell’800, riferisce Vittorio Accardi, “dopo il Congresso di Vienna, il re, che aveva assunto il titolo di Ferdinando I delle Due Sicilie, ritornato a Napoli, riprese le antiche abitudini e così fecero, seppure con un’etichetta assai meno rigida, i suoi successori; al pari del nonno, Ferdinando II preferiva la cucina napoletana e, perciò, i suoi Monzù lo seguivano anche durante i viaggi”.
Riferisce inoltre l’autore (per citazione di Raffaele de Cesare), con riguardo a un viaggio di re Ferdinando II in Calabria: “il Re aveva seco il suo cameriere particolare, Gaetano Galizia, mentre un cuoco e sottocuoco, con un servizio completo di cucina in apposito furgone, precedevano il corteo di un giorno”. I cuochi che parteciparono al viaggio erano Monzù Alfonso Cascella e Monzù Amedeo Striano. Impossibile riportare, ovviamente, altre parti del libro, ma come non citare (per il nostro immaginario collettivo) il “Timballo di maccheroni alla Maria Sofia”, in onore della giovane sposa di Francesco II, dove fu usato un tipo di pasta (i mezzanelli) che da allora furono battezzati “i maccheroni della regina”!
I Monzù godevano a Napoli di un rango certamente speciale tra le persone di servizio ed erano trattati spesso familiarmente dai loro “committenti”. Ben presto i Monzù entrarono a far parte delle famiglie nobili e aristocratiche napoletane e alcuni di loro, dopo anni al servizio di tali famiglie, si mettevano in proprio aprendo delle taverne: famosa quella di don Vincenzo Pallino (il terzo di una vera e propria dinastia di Monzù), presso la quale passarono, tra gli altri, Salvatore di Giacomo, Giacosa, Gabriele d’Annunzio, Matilde Serao.
Alcuni di loro venivano accaparrati dai circoli, come fu per Monzù Cunfettiello (Salvatore Ruggiano) al Circolo Nazionale, figura mitica nella storia della cucina napoletana: leggendari i suoi “pranzi del cinghiale” per i soci del Nazionale che una volta all’anno si riunivano per degustare piatti rigorosamente a base di questo animale selvatico. Ed ancora, al Casino dell’Unione, con Monzù dai nomi di Andrea di Scafa, Nunzio ‘e Campana, Ciccillo ‘e Bugnano, Alfredo ‘e Riario, Vittorio Vizioli. E così per il Circolo Artistico, il Circolo del Tennis. Una schiera di cultori del buon mangiare, che certamente hanno contribuito a conservare e consolidare alcune tradizioni della cucina napoletana. Chiudo con il menu di Monzù Cunfettiello del dicembre del 1932, per un importante matrimonio al Castello di Sirignano, dal quale non potrà non notarsi la semplicità e al tempo stesso la raffinatezza dei piatti:
Terrine di maccheroni felicità, Filetti di sogliole alla Tiberio, Pollastra d’India alla Primaverile, Biscotto gelato Laura.
Luciano Dore (nel settore LIBRI troverete testimonianze della famiglia Accardi)