LA STORIA DI GIOVANNI, a Procida (Punta Lingua) negli anni '50.
Un libro che l'autore, Antonio Gioja, ha prodotto in un numero limitato di copie ma che potrebbe essere replicato.
Ne narriamo qui la vicenda, davvero avvincente, riportando in corsivo alcuni periodi del testo originario.
Parte seconda.
IL RACCONTO DI GIOVANNI
Antonio spesso si fermava a chiacchierare con queste persone godendo di quei momenti in cui la natura catturava il pensiero sbattendo le onde contro gli scogli mentre ciuffi di alghe ondeggiavano schiumando. Nel gruppo, Giovanni, il pescatore di alici, era molto riservato e poco propenso al dialogo, quasi ne fosse impedito da un indicibile segreto. Era un personaggio diverso dagli altri, di discreta cultura, e, spronato da Antonio, si decise un giorno a raccontare la sua storia. Non era nato a Procida bensì in un luogo di montagna dove un lago era spesso la meta per la pesca che svolgeva insieme al suo amico Mario mentre il fido cane Lupo li accompagnava. Lungo la strada una tappa obbligata era il podere di Domenico, il quale era felice della visita volendo anche offrire loro una colazione genuina composta da uova fresche e caciotta fatta con il latte della pecora che si vedeva nell’ovile. L’ospitalità di Domenico piaceva per la genuinità delle cose, per la semplicità di lui e della sua famiglia e, tra l’altro Giovanni aveva simpatia per la loro figlia giovanetta, Elisa. Ma la decisione di andare a pesca in quella Domenica piovigginosa non fu una buona scelta e fu l’evento che sconvolse la vita di Giovanni.
Si intristiva il volto di Giovanni mentre raccontava con parole lente la storia dell’uscita in barca con l’amico Mario, la concentrazione nella cattura delle prede mentre nuvole basse volteggiavano all’orizzonte ed un vento minaccioso aumentava la sua forza. Già la barca si agitava senza controllo quando cercarono di tirare le lenze e governare il legno per ritornare all’approdo ma ormai erano presi dal sopraggiunto ciclone. La barca si rovesciò, Giovanni nuotò fino ad uno scoglio a cui restò aggrappato in attesa che la tempesta si calmasse e riuscì a raggiungere la riva benché ferito. Si trascinò fino alla casa di Domenico il quale allertò i soccorsi. Tutto finì quando i corpi di Mario e del cane furono trovati impigliati nella vegetazione galleggiante.
Dopo qualche giorno Giovanni fu chiamato alla Stazione dei Carabinieri ove espose ciò che era avvenuto e la sua fortuna di aver trovato lo scoglio che l’aveva salvato mentre il suo amico e Lupo erano stati travolti dalla corrente.
Si trattava di un racconto lungo e malinconico ed era evidente la commozione di Giovanni per cui si salutarono con l’impegno tacito di continuare il mattino seguente. Si rividero infatti nella Piazzetta Scialoja e, dopo un buon caffè, il racconto proseguì.
La faccenda del lago aveva segnato per sempre la vita di Giovanni che si sentiva un po’ corresponsabile della disgrazia in cui l’amico ed il cane avevano perso la vita. Il suo cruccio era quello di essersi salvato, di essere stato più fortunato. Non la pensava così la gente del suo paese che lo guardava dubbiosa sulle modalità della sua salvezza essendo lui il solo testimone. Così avvenne che in una osteria un parente di Mario, in evidente stato di ebrezza, lo accusasse di nascondere una verità scomoda e lo provocasse al punto da assalirlo. Purtroppo uno spintone difensivo di Giovanni procurò la sua caduta e l’urto contro uno spigolo di un tavolo con conseguente ferita mortale. Ne seguì l’arresto, il processo e la condanna di Giovanni da scontare nel penitenziario dell’isola di Procida, in località Terra Murata.
E così iniziò la conoscenza di Giovanni con l’isola di Procida, una conoscenza limitata ad una cella in coabitazione con altri due reclusi, le sbarre al vano-finestra e l’abito che non avrebbe mai dimenticato: una casacca a righe. Fortunatamente il rapporto con i coinquilini era cominciato bene, erano persone tranquille. Lo rassicurarono anche sulla figura del Direttore che era molto disponibile e comprensivo delle esigenze dei detenuti.
Giovanni era una persona molta attenta e si accorse subito che la prigionia sarebbe diventata davvero estenuante se non avesse subito intrapreso un’attività che potesse distrarlo nelle lunghe giornate, per cui chiese un colloquio con il Direttore per offrire la sua capacità di meccanico d’officina da impiegare presso il laboratorio di tessitura esistente nel carcere. Tornando dal colloquio, che era andato molto bene, trovò sul suo lettino il libro di Silvio Pellico “Le mie prigioni”, fornito da uno dei due reclusi con cui divideva la cella, un professore di liceo che era incaricato di gestire la biblioteca del carcere e che si offrì a Giovanni per migliorare la sua capacità di lettura fino poi a proporgli di diventare suo aiutante nella gestione della biblioteca, se il Direttore avesse dato il suo consenso. Quindi Giovanni si trovò a catalogare i libri, ad assegnarli ai reclusi, a registrare le cessioni, a spolverare e riordinare. Il professore curò anche la sua crescita nella grammatica e nella sintassi. Passò il tempo e con il tempo il professore finì per cedere alla curiosità di Giovanni sui motivi della sua condanna. Raccontò di suo figlio Umberto che da brillante studente liceale e ottimo studente universitario aveva improvvisamente cambiato la sua vita estraniandosi dalla famiglia e chiudendosi in se stesso. La speranza era che si potesse trattare di un momento di sofferenza che presto si sarebbe esaurito ma invece nel breve tempo il ragazzo era degradato anche nell’aspetto, al punto di sembrare un malandato barbone mentre anche le sue esigenze economiche erano aumentate a dismisura. La realtà era che aveva ceduto alla droga finendo poi suicida assumendone una dose eccessiva. Questa disgrazia non fu unica perché la moglie, già sofferente di problemi cardiaci, raggiunse presto il figlio.
“Il dolore per la morte del figlio, cui seguì anche quella della moglie, lo stavano facendo quasi impazzire. Oramai solo e di fronte a tale tragica realtà non sapeva quale decisione avrebbe dovuto prendere per rifarsi una vita che anch’essa stava per distruggersi. Pensò di suicidarsi poiché, forse, sarebbe stata l’unica soluzione che avrebbe chiuso definitivamente un ciclo familiare ormai sulla via di una totale distruzione. Con il passare dei giorni un pensiero gli rimuginava nel cervello continuamente come fosse una ossessione. Doveva venire assolutamente a conoscenza di quali fossero state le cause che avevano originato quella tragedia. Quale fosse stato, cioè, il vero motivo per cui suo figlio, con fredda determinazione, era arrivato al punto di suicidarsi.”
Rintracciò Nicola, un amico del figlio, che gli spiegò che il figlio si era innamorato di una ragazza che però era in un giro di perversioni tra cui festini con droga e che lo aveva indotto a partecipare al gruppo che si riuniva in un villino.
“Era ormai chiaro che si trovava sull’orlo di una vera follia avendo dinanzi a sé il vero obiettivo di incontrare colui che era il capo di quella organizzazione e di cui Nicola aveva fatto una precisa descrizione. Si chiamava Giulio e la sua caratteristica principale era l’altezza che sfiorava i due metri e una riccia capigliatura che gli cascava sulle spalle”.
Non fu difficile rintracciare Giulio nel suo posto di spaccio. Dopo un breve dialogo di presentazione per fargli capire chi fosse, compì la sua vendetta sparandogli. Una famiglia distrutta, un padre disperato, il carcere, il segreto rivelato.
LA LIBERTA’
Ormai la pena volgeva al termine e presto il portone del carcere si aprì e pose Giovanni davanti al problema di come riorganizzare la sua vita al di fuori di quelle mura. In fondo quelle mura fino a quel momento avevano rappresentato una barriera verso il problema ma ora si era giunti alla realtà.
“Andai alla ricerca di un angolo ove poter riflettere sul mio ritrovato stato di libertà. Non vi era luogo migliore di quel vicino belvedere della splendida baia della Chiaia. Da lì poteva la mia vista volgere lo sguardo scorrendo lungo la distesa marina sino all’orizzonte. L’azzurro si univa al rosso vermiglio di un sole che man mano si dileguava per lasciar posto alle ombre della sera”.
Era stato per tanto tempo nell’isola ma di Procida non conosceva nulla … ma già in quel primo impatto trovò familiarità con un ambiente composto da piazzette, stradine, vicoletti, il belvedere, la Corricella, tutto gli sembrava accogliente. Prese una camera nella pensione gestita da due anziane signore e nei giorni di visita si recava nel carcere per una chiacchierata con il suo amico Professore. Un giorno, però, gli comunicarono che il Professore era malato e che era ricoverato nell’infermeria del carcere. Successivamente fu trasferito all’ospedale e presto ne fu comunicato il decesso. Quella morte rappresentò per Giovanni la fine di un periodo che aveva prodotto la sua crescita culturale e forse era per quella riconoscenza che ancora non si era allontanato dall’isola.